Conto alla rovescia

Capita spesso che la sera Taz non riesca a prendere sonno. La sua mente è un treno lanciato ad alta velocità carico di idee da realizzare, piccoli problemi da risolvere e compleanni da pianificare ("Babboale, tra tredici mesi avrò tredici anni").

Succede altrettanto spesso che una decina di minuti dopo la buonanotte, scenda piano piano le scale con un passo che ormai il mio orecchio ha imparato a distinguere nettamente anche con la porta chiusa e la TV accesa, e si affacci timidamente in soggiorno.

"Ik kan niet slapen" (non posso dormire), annuncia entrando a gamba tesa sulla nostra serie preferita. O più spesso "Iffhannissappen", quando con l'estensore palatale ancora in bocca atterra sulle nostre chiacchiere serali.

Il più delle volte è Brunilde che se ne fa carico, con più o meno empatia a seconda di come è andata la sua giornata, ma ieri, davanti ad un altro paio di occhi imploranti, ho deciso che fosse il mio turno. Mi sono alzato dal divano e sono salito in camera con Taz.

Lei si è rinfilata nel letto e, mentre le aggiustavo le coperte, ha continuato a elencare tutti i motivi per cui sarebbe stato oggettivamente impossibile prendere sonno. Io rispondevo colpo su colpo: "Vuoi scrivere questi pensieri nel tuo diario?", "Facciamo dieci minuti di meditazione?", "Mettiamo dei suoni rilassanti?", fino ad esaurire tutto il repertorio di strumenti e strategie suggeriti al centro dove a Taz è stato diagnosticato il disturbo dell'attenzione e iperattività.

È stato in quel momento che mi sono ricordato di un altro trucco che devo aver letto in una di queste applicazioni di meditazione in una notte di pensieri che si rincorrevano senza lasciarmi dormire. "Contiamo alla rovescia da diecimila!"

Taz ha spalancato gli occhioni blu, tra curiosità e disappunto. Ma dopo alcune obiezioni e aver negoziato sulla cifra ("proviamo ad iniziare da mille?") abbiamo chiuso gli occhi e iniziato a contare, prima insieme, sottovoce e poi mentalmente mentre io le tenevo la mano e le accarezzavo i capelli biondi.

Dopo cinque minuti, quando il suo respiro si è fatto lento e profondo la sua mano ha allentato la presa, ho iniziato a sfilarmi. "Ma sono solo a settecentoquarantadue!" mi blocca aprendo di nuovo gli occhi e serrando le dita attorno alle mie. Di nuovo mi sono inginocchiato accanto al letto, riprendendo a contare e ad accarezzarle i capelli.

Ho lasciato passare un tempo più lungo prima di sgusciare di nuovo con estrema delicatezza. Avevo quasi richiuso la porta dietro di me quando la sua voce mi ha raggiunto: "Babboale, ma devo arrivare fino a zero?". Ho sorriso nel buio: "No amore, puoi fermarti quando vuoi"

E mentre scendevo le scale ho pensato che forse essere genitori è proprio questo: restare accanto ai nostri figli tenendoli per mano, sapendo che non esistono soluzioni magiche ai loro problemi. Solo il tempo necessario a ciascuno per trovare la propria strada o fermarsi al momento giusto. Chissà a quale numero.